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fondazionecariellocorbino / attualità  / Un Nobel per accorgerci dell’Africa stuprata. E per non far nulla, come sempre.

Un Nobel per accorgerci dell’Africa stuprata. E per non far nulla, come sempre.

Un pranzo dei nostri bimbi fortunati.

Smettete di stuprare l’Africa, mettetela in condizione di guarire, e l’Africa se ne starà buona buona a casa sua a godersi le proprie comunità, la propria natura, le proprie abitudini. Fare altro, sperare altro, è pure ipocrisia.

E’ di queste ore l’annuncio del premio Nobel per la pace 2018 al ginecologo Denis Mukwege, che cura le vittime di violenza sessuale nella Repubblica Democratica del Congo, il Paese in cui la Fondazione Cariello Corbio opera e all’attivista per i diritti umani Nadia Murad, Yazida irachena ex schiava sessuale dell’Isis. A loro il riconoscimento “per i loro sforzi per mettere fine all’uso della violenza sessuale come arma in guerre e conflitti armati”. Ne siamo lieti.

Denis Mukwege lo chiamano “l’uomo che ripara le donne”. Dal 1998 ha curato quarantamila vittime di atroci stupri, nel suo Paese, la Repubblica democratica del Congo. Mukwege è un ginecologo che da sedici anni raccoglie donne distrutte, violate dalla follia della guerra che ufficialmente è terminata nel 2002, ma che prosegue come lotta efferata tra l’esercito regolare e gruppi armati che cercano di controllarne ricchezze immense. Ha fondato nel 1998 l’ospedale Panzi a Bukawo, nell’est del Paese, dove accoglie, supporta e  cura le donne vittime di stupri, e ha perfezionato tecniche pioniere che riducono le terrificanti lesioni (fisiche) che sono loro inferte. “Lo stupro è una vera e propria strategia“, ha spiegato Mukwege, le violenze sessuali su donne, per lo più giovanissime, sono perpetrate in pubblico, si tratta di riti di violenza collettiva che distruggono sistematicamente le comunità. Chi subisce e chi assiste impotente alle violenze poi fugge dai villaggi, abbandonando tutto quello che ha, per la vergogna. Mukwege non solo combatte ogni giorno, nella prima linea del suo ospedale, ma Mukwege da anni è diventata l’unica voce che si ostina a denunciare alla comunità internazionale un crimine che non trova fine“. (da Repubblica.it)

Vorremo sottolineare queste ultime parole: l’unica voce che si ostina a denunciare. Quarantamila vittime in meno di 20 anni, sono solo quelle curate da questo coraggioso medico… quante saranno in totale le vittime di stupro in questo Paese, un milione? L’Italia, come l’Unione Europea, non sa neanche dove sia la Repubblica Democratica del Congo, il secondo paese più grande dell’Africa, e se ne frega della sue donne stuprate, dei suoi bambini lavoratori; mentre ci tiene tanto ai suoi politici corrotti, perché fa comodo mantenerli lì al potere, perché così le nostre aziende europee possono fare business con profitti esorbitanti, senza rinunciare a un solo euro per tutelare gli interessi dei lavoratori, della popolazione ridotta ad un’esistenza di mera sopravvivenza.

Se vogliamo fermare l’esodo di questi pezzenti disperati dall’Africa, dobbiamo e possiamo fare solo una cosa: smettere di farli diventare pezzenti e disperati, imponendo alle nostre multinazionali il rispetto delle convenzioni internazionali sui diritti umani e sul lavoro, così come se lavorassero in Europa. Perché in Europa non mandi in miniera un bambino di 6 anni e in Congo sì? Perché in Europa un lavoratore ha diritto a un giusto compenso e in Congo no? Questo è il vero razzismo. Ed è un razzismo imprenditoriale e istituzionale, perché perpetrato dalla complicità e dell’inerzia delle Istituzioni Europee e italiane (e gli altri Paesi non sono migliori). Le preoccupazioni, gli inviti alla fermezza e gli enunciati espressi nella Risoluzione del Parlamento Europeo (2018/2515(RSP) sulla RDCongo non sono sufficienti a invertire la rotta di uno sfruttamento che dura, impietoso e dissennato da secoli. Occorre ben altro. Tutto il resto è pura ipocrisia, è complicità in stupro.

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