Luca, Vittorio e Mustapha: il loro Congo.
Ho atteso due giorni che mi arrivassero le parole giuste per commentare l’agguato in cui hanno trovato la morte Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci e Mustapha Milambo in Repubblica Democratica del Congo, in quel Nord Kivu dove da 4 anni mi reco come volontario per i nostri piccoli progetti di cooperazione. Temo che l’attesa sia stata vana, ma provo comunque a scrivere, cercando di mettere da parte l’incredulità per l’inadeguatezza delle misure di sicurezza e l’ansia per l’incertezza di quando potremo tornare a percorrere ancora quella strada e raggiungere i nostri bambini.
Luca, Vittorio e Mustapha, il mestiere che facevano lo conoscete e non trovo il senso di ricordarlo ora. “La morte è una livella”, diceva Totò. Ma quella livella in Africa arriva prima, con la vita, se sei come Luca Attanasio, uno che lavora per i primi e vive per gli ultimi . Quando sei come Luca ti curi che il primo a essere a suo agio in quel viaggio sia Vittorio, la fedele guardia del corpo cui l’Arma ha insegnato tecnica, onore e forma, ma che è il meno esperto di quelle aree così lontane da Kinshasa e dall’Italia. Quando sei come Luca e Vittorio, uno come Mustapha lo saluti con sincera cordialità, ricambiando i suoi grandi sorrisi, e non ti importa se lui magari ti chiama per nome. Ti importa che lui sappia guidare una jeep su quelle strade piene di fossi e ai cui lati corre una fitta boscaglia, mentre il tuo sguardo si perde lontano ad ammirare gli splendidi vulcani del Virunga. Quando sei in strada nel Nord Kivu, anche se sai cosa è stato il Nord Kivu negli ultimi venti anni, non puoi fare a meno di farti distrarre dalla bellezza del paesaggio e dai sorrisi delle centinaia di bimbi che ti gridano mzungu e ricorderanno la tua mano bianca che saluta da lontano come il momento più bello delle giornata, o della settima, o del mese. Guardi ammirato uomini, donne e bambini che si massacrano di lavoro, trasportando come formiche pesanti fardelli nella strada polverosa, a piedi, in bici, chiedendoti perché quello che per te è paradiso per loro è quotidiana sopravvivenza. La percezione del rischio che ti succeda qualcosa di negativo è lontanissima e in quel momento si è solo uomini, fratelli nel respiro e nelle risatine indotte dall’african massage delle strade sconnesse, tre esseri umani accomunati dal desiderio di fare del bene ad altra umanità, dalla curiosità di vedere i progressi di un progetto che sta alleviando le sofferenze di un popolo gentile e innocente.
Ho avuto il piacere di conoscere solo uno dei tre, Luca – e solo al telefono. Il mio chiamarlo per nome non vi porti fuori strada: i messaggi e la nostra unica telefonata, il 5 gennaio scorso, erano tutto un “dottore” e “eccellenza” così come i miei genitori e la laurea in Scienza Politiche mi hanno insegnato. E questo nonostante il mio interlocutore si fosse da subito mostrato come la più disponibile delle persone, dal primo “per qualsiasi necessità può contattarmi sul mio numero di WhatsApp” al successivo “come le anticipavo mi contatti via whatsapp quando preferirà. Nel frattempo buone feste a lei e famiglia” del 23 dicembre, in risposta alla mia ritrosia a volere disturbare niente di meno che l’Ambasciatore in Congo per le questioni logistiche del mio piccolo progetto, nella più remota delle regioni di sua competenza.
“Dottore, come prima cosa, posso chiederle perché ha scelto, con tutti i posti che ci sono, proprio il Nord Kivu?” fu la sua prima domanda di quei 15 intensi minuti di quella conversazione. Io risposi come sempre “E’ il Nord Kivu che ha scelto me”, “e credo che lei possa capirmi” avrei potuto osare aggiungere se avessi saputo del suo impegno civile in Congo oltre quello istituzionale. Lo avevo contattato per chiedergli come poter inviare un container di aiuto ai nostri bambini a Rumangabo, visto che, causa guerra civile, la posta lì non funziona e il coronavirus ci impediva di portare noi stessi quei beni, dal febbraio 2020. E lui mi disse, con tono deciso e allegro “Semplice, non lo fa, e se lo fa io non glielo autorizzo” spiegandomi, in maniera professionale e gentilissima, il perché non fosse possibile e dandomi utilissimi consigli in merito. Ci lasciammo col mio invito a visitare i nostri progetti che “qualcuno del WFP aveva visitato poco prima – mi vantai – facendoci i complimenti”. Ora mi chiedo se, passando proprio di là, l’ambasciatore si sarebbe ricordato del nostro orfanotrofio a Rumangabo, 15 chilometri circa più a Nord delle Tre Antennes, il luogo dell’agguato. Magari, consultatosi con Vittorio, avrebbe chiesto a Mustapha di fare una breve sosta a vedere i nostri bimbi che li avrebbero circondati e sommersi di abbracci. Loro fanno sempre così, con buona pace della nostra virusfobia. Il migliore esempio di uomo delle istituzioni, il migliore tra gli esseri umani, così mi è parso essere Luca Attanasio, giovane ambasciatore.
Vittorio e Mustapha non li ho conosciuti. Ma li conosco. Vittorio è l’Arma, quella che serve e protegge e non fa molte domande, ma qualche sorriso sì. Vittorio è fratello di divisa dei Rangers del Parco del Virunga che hanno cercato di soccorrerlo, quelli che li hanno trasportati all’ospedale, su una camionetta scoperta, stringendo forte i loro corpi e le loro mani insanguinate, per non farli cadere. Contatto, sangue, nero, bianco… la penna mi porta ad accennare a parole vietate da tanto tempo. Sono gli stessi Rangers che ad aprile 2020 hanno pianto 13 loro colleghi morti in un’imboscata a dei civili esattamente nella stessa zona, su quella stessa strada che qualcuno due giorni fa evidentemente avrà “definito sicura”, la stessa strada che i nostri collaboratori locali hanno oggi paura a percorrere, isolando così sempre più la città di Goma dai villaggi vicini. Tra questi 13 caduti c’era anche un collega di Mustapha, uno che anche se non ha la divisa si sente un ranger perché per guidare un mezzo pesante in quella strade, in ogni condizione meteo, devi essere un guerriero, consapevole che da te dipende la vita di ognuno dei tuoi compagni di viaggio.
Quando sei in viaggio con loro ti senti al sicuro: Mustapha domina la strada, Vittorio, David, Joseph o Rachel la leggono cercando minacce tra gli alberi, gli arbusti, o le divise infedeli, tenendo strette le loro armi. E, diplomatico cooperante o turista che tu sia, ti godi il paesaggio e il pensiero che tra poco, giunto a destinazione, vedrai il miracolo dell’umanità al lavoro per il bene.
Ho voluto scrivere questo articolo per onorare la vita di tre esseri umani diversi tra loro, ma con lo stesso sangue e lo stesso sogno di vivere “servendo” il prossimo. Ho voluto scrivere questo articolo per ricordare a noi tutti che quel sangue si mischia oggi a quello dei sei (otto???) milioni di civili uccisi in venti anni di guerra civile strisciante nel Kivu e ignorata dalle Cancellerie di tutto il mondo, quelle stesse Cancellerie che oggi piangono per le vite spezzate. Scrivo per ricordare che questa guerra ha nomi e cognomi e anche un soprannome: avidità. Quella dello sfruttamento incontrollato delle miniere di cobalto, coltan, diamanti, oro e tutto il bendidio che la natura ha posto sotto i piedi dei congolesi e che può essere estratto a costo infinitamente inferiore in un contesto di instabilità politica. Che il Congo soffra, che milioni di civili innocenti siano ammazzati o migrino da un angolo all’altro del paese come prede in trappola, che ogni tanto un ranger, un autista e qualche straniero siano uccisi, fa parte del cinico gioco del progresso rapido se a basso costo (economico) le cui spietate regole nessuno, nelle stanze dei bottoni come nel più ordinario dei tinelli da cui facciamo i nostri acquisti on-line mente cuoce la pasta, vuole cambiare.
Nel bel discorso del Ministro degli Esteri alla Camera, ho sentito accenni ai contrasti tra ricchezza e povertà del Congo, e l’auspicio che questa tragedia sia ricordata nel modi che “loro avrebbero voluto”, migliorando la vita di queste popolazioni. Non ho sentito alcun accenno alle vere cause e soprattutto a soluzioni definitive, se non a quelle “di rattoppo” dei progetti di cooperazione, grandi o piccoli che siano. Forse non era l’occasione giusta, forse non sono ancora maturi i tempi.
La storia ahimè insegna, e temo che, a causa del nostro egoismo, il sacrificio di Mustapha, Vittorio e Luca, sarà stato, oltre che assurdo, vano e presto dimenticato. Niente mi renderebbe più felice, di poter dire, un giorno vicino o lontano: mi sbagliavo!
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